Il carnevale di oggi. Una specificazione necessaria, quasi spontanea, che molti molfettesi, forse inconsciamente, fanno, ricordando con nostalgia quei giorni in cui a Molfetta non c’erano solo maschere di cartoni animati o di supereroi, non c’erano solo coriandoli o poche trombette.
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“Carnval, meschr e soun”, il vernacolo rende di più l’idea di cosa accadeva in passato.
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Padelle che sbattevano, trombette che squillavano, improvvisati tamburelli con sonagli che colmavano le strade ed i vicoli. Travestimenti tipici, maschere che si addentravano nella città inscenando piccole parti.
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Forse solo alcuni ricorderanno di Frengisch’ u gobbe, pseudo medico che trainava su di un carretto il suo paziente, fermandosi di tanto in tanto per mostrare ai passanti, finte e fasulle parti anatomiche, ossa, mandibole, suscitando le risa dei tanti. O, probabilmente, pochi sono i bambini che preferiscono mascherarsi da zingarella o da pulcinella, anche queste, maschere all’epoca diffuse.
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Ma ciò che più manca, ciò che più ci faceva pensare al carnevale, erano i carri. Chi può dimenticare la grande sfilata che, dipingendo corso Umberto, mostrava ai passanti, maestose opere d’arte di burla, di satira, di intrattenimento. Chi può dimenticare dei balli, della musica che accompagnavano questi giganti.
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Di certo chi non potrà mai dimenticare tutto ciò, è colui che ha dato vita a queste opere. Colui che plasmandole ha trasmesso ogni volta tutto ciò che poteva comunicare, tutto ciò che poteva sentire, lasciando una piccola parte di sé in quei carri.
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Il cartapestaio, era a Molfetta, una delle chiavi di volta del carnevale. La sua arte, così ricercata, così minuziosa, produceva capolavori che di anno in anno accrescevano le aspettative, raccogliendo una folla di gente sempre più numerosa.
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“Il lavoro di cartapestaio – ci racconta Vito Scardigno, uno degli ultimi cartapestai di Molfetta, allievo dei noti maestri Catacchio e Modugno – l’ho svolto dal lontano 1970, sino al 2012, ultimo anno in cui abbiamo avuto possibilità, a Molfetta, di far sfilare le nostre opere. È un’arte di sacrificio e passione, che ha richiesto sempre, più o meno, tre mesi di preparazione e lavorazione. Una lavorazione che è cambiata nel corso del tempo. Adattamento a nuovi mezzi e materiali che hanno, di pari passo, agevolato questo lavoro, che tuttavia rimane pur sempre prodotto di artigianato”.
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Il signor Scardigno ci racconta come anche i soggetti siano cambiati nel corso del tempo. “Ricordo che il mio primo carro, realizzato nel 1970, era intitolato Goldrake, rinomato cartone giapponese. L’ultimo carro, invece, realizzato con i miei compagni di gruppo, era intitolato Spendi spendi il contante ed un po’ di carburante”, nel 2012.
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Dai titoli stessi possiamo comprendere come l’allegoria dei carri sia cambiata, e per certi versi, con l’avanzare del tempo, sia divenuta più complessa, richiedendo anche un maggiore sforzo da parte del pubblico di comprendere cosa potessero significare quelle maschere.
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Cambiamenti però che non hanno mai alterato lo stato d’animo di coloro che, raggruppandosi sui bordi delle strade, attendevano con impazienza la grande sfilata.
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“Purtroppo a Molfetta – ammette Vito Scardigno – si è persa questa grande usanza e con essa anche la figura del cartapestaio. È difficile comprendere quanto al giorno d’oggi sia davvero importante aggrapparsi saldamente alle proprio tradizioni. Ed è proprio su queste basi che nasce la richiesta che, chi di dovere, possa istituire un laboratorio, una scuola, per quest’arte</strong>; che per 42 lunghissimi anni mi ha regalato così tanto. Pensare che nessuno possa vivere ciò che noi con questa passione abbiam potuto provare, provoca un immenso dispiacere”.
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Ricordarci ogni giorno quanto la nostra terra, le nostre origini, le nostre tradizioni ci aiutino a comprendere meglio chi siamo, da dove veniamo e quale sia il nostro posto in questo mondo, non è mai superfluo. Ricordarci di avere un passato così ricco ci aiuta a riflettere. Riesumare usanze così ormai sbiadite, gettate quasi nel dimenticatoio, è un dovere.
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