Attualità

Quelle indimenticabili “avventure al cementificio”

Un molfettese come tanti
L'ex cementificio alle spalle della stazione
Il giorno dopo la demolizione di un pezzo di storia molfettese, un aneddoto particolare. E un tuffo al cuore
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Diciamolo subito: questa è una storia che con il giornalismo non ha nulla a che fare. È una storia di vita vissuta,  raccontata in prima persona e con un tuffo al cuore. Un ricordo di quelli che quando prendi un caffè al bar con vecchi amici, torna spontaneo e ti fa sorridere, come se fosse successo ieri.

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Chi scrive si chiama Pasquale, ma potrebbe benissimo chiamarsi Raffaele, Enzo, Daniele, Tobia. Come i protagonisti della vicenda che stiamo per raccontare. Potrebbe persino avere il nome di centinaia di molfettesi che, come noi, una domenica pomeriggio d’estate decise di “fare un’avventura al cementificio”.

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Di quel cementificio, cioè, che ieri è stato abbattuto, ma che rientra a pieno titolo nella storia di una Molfetta di secoli e di decenni fa.

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Avventura al cementificio, dicevamo. E quando si parla di avventura, per i ragazzini, si fa riferimento a una sorta di sfida tra coraggiosi, fatta di mura scavalcate, rampicate imprudenti, corse ad ostacoli ed esplorazioni in piena regola. Piccolo dettaglio: non proprio legali, e nemmeno tanto sicure.

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Quella domenica i cinque di cui sopra avrebbero dovuto farsi un giro in bici, come sempre. Invece puntarono il cementificio, e iniziarono la loro avventura. Tutti 15enni, eccezion fatta per uno, neo 18enne. Il più secchione del gruppo. Pure lui, quel giorno, avventuriero.

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Cominciarono a correre, scavalcare, scoprire, osare. Con tanta dose di incoscienza, ma pure il pieno d’entusiasmo. Trascorsero ore intere, fino a che giunse l’ora di tornare a casa. Che quando si parla di avventura e cementifici, spesso faceva rima con “darsela a gambe”. Quasi una prassi, più che il timore di essere scoperti. Perché suvvia, come si fa a essere beccati? Lo fan tutti…

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Quella volta non andò così. Ricordo ancora il volto di Tobia, il primo a scavalcare il muretto di ritorno del cementificio. Tobia sbiancò alla vista della divisa dei carabinieri. E come lui, sbiancammo tutti. I carabinieri, a onor del vero, sapevano già che la marachella non avrebbe avuto conseguenze eccessive, ma la lezione dovevano pur impartirla. Per noi, invece, soprattutto per il sottoscritto e il maggiorenne, quei nomi e cognomi chiesti dalle forze dell’ordine rappresentavano un vero dramma.

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Al punto che, nonostante il rimbrotto dei carabinieri, e il successivo ’”andate a casa e non fatelo mai più”, la frase venne fuori timida e imbarazzata. Spontanea: “Chiediamo scusa”.

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Se i carabinieri ci risero su, figurarsi i miei amici, che mi avrebbero sbeffeggiato per anni. “Ma come, ci graziano e tu, invece, di ringraziare e andar via, ti fermi e dici cazzate?”. I miei amici (i carabinieri non so) per questo motivo mi sbeffeggiano ancora.

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Oggi, che quel cementificio rimarrà sui libri di storia e su quelli dei ricordi, quel “chiediamo scusa” è una delle firme della nostra adolescenza. Dell’adolescenza di uno psicologo, di un giornalista, di un imprenditore agricolo, di un operaio, di un calciatore e preparatore atletico. Quel giorno semplici avventurieri nel cementificio dietro la stazione.

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PS L’avventura nel cementificio è ricca di ben altri aneddoti e diverse goliardate. Ma queste non si possono raccontare. Consentitemelo, consentitecelo: resteranno confinate nei caffè tra vecchi amici e nostalgici amanti del tempo che fu.

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venerdì 24 Marzo 2017

(modifica il 30 Luglio 2022, 5:14)

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