Cultura

Giovanni Minervini e il passato da “ragazzo del forno”

Adriano Failli
I ragazzi del forno
Un'infanzia passata a trasportare tegami in giro per la città, indossando il "tarallo"
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Che cosa può significare rimboccarsi le maniche sin da bambino, Giovanni Minervini lo sa molto bene. Non è stato facile, come ci ha raccontato, muovere sin da sette anni i primi passi all’interno di un forno, da giovane lavoratore. E’ stata una scelta più che altro dettata dalla volontà di sua mamma, che ha allontanato lui e il fratello Pietro dai giochi tipici dell’infanzia per inculcare in loro la cultura del lavoro. Quello che però il piccolo Giovanni probabilmente non sapeva, era di essere uno degli ultimi esponenti di una categoria di lavoratori scomparsa nel tempo: i ragazzi del forno.

Il forno cittadino era un luogo di lavoro straordinario della città, la fucina dei piatti caldi, delle specialità nostrane: dalla focaccia alla pasta al forno, da tutti i piatti secchi a quelli più brodosi, tutti passavano dalle sapienti mani dei fornai, per essere riscaldati e acquisire un gusto inarrivabile. C’era poi chi queste pietanze, custodite nelle preziose teglie, doveva trasportarle in giro per la città, direttamente a casa dei clienti. Era questo il compito di Giovanni e di altri giovani, che costituivano la squadra di supporto del forno.

“Ho svolto questo lavoro nella metà degli anni ottanta – ci racconta Giovanni – camminavo cantando le canzoni del momento, i vicini avevano imparato a riconoscere la mia voce ed erano pronti al mio arrivo. Ci dividevamo le zone di consegna, da un certo momento poi si andava a memoria, riconoscendo chi fossero i clienti”. Così ci racconta di come una porta verde divenne il punto di riferimento principale per la zona, o di come i clienti fossero riconosciuti con vari nomignoli. Ci mostra anche un paio di cicatrici, segni indelebili del passato: “Queste sono state causate da un brodo bollente di peperoni ripieni”.

“Ero piccolo e minuto – ci racconta mostrandoci alcune foto – così sembravo un tegame che camminava. Tutte le signore ci lasciavano un pezzo di focaccia, era una specie di mancia”. La consegna avveniva a piedi, o in bicicletta. Prima però di passare al mezzo, i ragazzi dovevano fare delle prove, inizialmente con un tegame vuoto, poi con uno colmo d’acqua. Si cominciava con i tegami di cibi asciutti, solo dopo aver maturato una certa esperienza si poteva passare a quelli più elaborati. Per portare la teglia a bordo della bicicletta si utilizzava il “tarallo”, un panno bagnato e attorcigliato attorno ad uno spago che veniva modellato sulla testa di ogni ragazzo per poi essere infornato per acquisire consistenza. Dopo di che, veniva posto un pezzo di legno nel tegame vuoto per dare peso e forma al “tarallo”. Su questo particolare panno venivano poi poggiati i tegami.

“Alcune volte, per velocizzare, ne mettevamo uno sull’altro. Qualche teglia è caduta – ci confessa – ma la si portava a casa della moglie del fornaio che subito la risistemava o la cuoceva da zero. Le signore non si sono mai accorte di nulla. Era un passato differente, lavorare da un’età così piccola è stato traumatico, ma oggi ringrazio mia madre, in fondo, ci siamo divertiti”. Oggi Giovanni lavora assieme al fratello Pietro nella sua azienda, conservando gelosamente il ricordo di un’infanzia passata a trasportare pietanze in giro per Molfetta, un mestiere scomparso, che richiama a tempi oggi più che mai lontani.

lunedì 29 Luglio 2019

(modifica il 29 Luglio 2022, 1:12)

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