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Estrelas, Sinisi: “Abbiamo fatto il nostro dovere”

Antonio Aiello
Maurizio Sinisi
L'intervista al giocatore molfettese in vista delle Final Eight
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“Io penso che non abbiamo fatto nulla di eclatante, abbiamo fatto solo il nostro dovere, anzi dovevamo e potevamo fare ancora meglio, con dei risultati magari non in bilico fino alla fine. È una squadra che non può permettersi di perdere o pareggiare delle partite, siamo destinati a vincere per forza. È stata una stagione normale non abbiamo fatto nulla per esaltarci e vantarci, ora si vedrà nella “final eight” chi siamo e quanto valiamo, sarà molto difficile, ma noi cercheremo a tutti i costi di farcela, per ritrovare l’A2.” Con queste parole di umiltà Maurizio Sinisi traccia il bilancio di una stagione che l’ha visto in pista fra i protagonisti della vittoria dell’Estrelas nel proprio girone, conquistando il passaporto per le “final eight”, in programma all’inizio di maggio a Castiglione della Pescaia. MS7 (ultimamente ha aggiunto un numero 8, divenendo MS78) è un ragazzo dalle 7 anime, come quel numero che ha sempre deciso di tatuarsi nel proprio io e che ci riporta alla spiritualità in cui è immerso, credente e fedele nella vita, cosi come nella squadra. Ultimamente ha deciso di affiancare al suo numero 7, l’8 simbolo dell’infinito ma, anche il nome del suo fedele cane e come il numero di maglia di una persona che lo ha supportato, ispirato e affiancato nelle passate stagioni hockeistiche molfettesi. Maurizio Sinisi che dai rapporti interpersonali tra compagni di squadra trae benefici per esprimersi al meglio. Per questo ringrazierà sempre i suoi compagni, colonne portanti in ogni sua stagione; capace di donare il proprio cuore e la propria anima in campo (come nella vita) per la causa che sposa. “Credo che con mister Marzella, – aggiunge MS 78 – non mi sono ancora espresso nel modo migliore, è il primo anno che mi allena, anche se mi ha sempre cercato e questo è un onore per me, certo mette a dura prova la mia pazienza ma lo accetto perché entrambi inseguiamo questa maledetta passione, non ho mai pensato di vivere di hockey nonostante mi siano passati dei treni che, per scelta, non ho voluto prendere”.

È stato un crescendo di pubblico al “PalaFiorentini”, durante le gare, spesso hai preso la squadra per mano e dalla pista hai chiesto al pubblico di incitarvi.

“È stato un crescendo, la maggior parte del pubblico ci sostiene, un’altra parte viene a vedere un nostro fallimento, a me piace pensare a tutte quelle persone che non sono più fra noi che ci guardano da lassù , mi piace pensare a quelle persone che hanno delle disabilità, mi piace pensare a tutte quelle persone che non possono esprimersi nello sport…ecco mi piacerebbe essere espressione di queste persone, come se queste persone fossero lì con me, giocassero con me, mi supportassero in ogni momento della gara rappresentando la mia testa, le mie gambe, ma soprattutto il mio cuore. In questa stagione ci sono stati dei momenti in delle gare, dove ho cercato di dare un grosso contribuito alla squadra, avrei potuto fare meglio, non mi do la sufficienza per come ho giocato queste partite. Ho chiesto l’incitamento del pubblico, per me, è un’energia esterna, una forza della quale ho bisogno mentre gioco. Attraverso questo gesto sento dentro di me questa gente, è come se mi dessero un ulteriore forza”.

Cosa significa per un molfettese doc indossare i colori della propria città e far sognare la tifoseria per il salto di categoria?

“Credo che chiunque indossi la maglia della propria città abbia sempre qualche motivazione in più rispetto agli altri, per me è come se fosse una seconda pelle. Mi sarebbe piaciuto, nel corso della mia carriera, avere più riconoscenza non tanto da chi è sugli spalti ma, soprattutto, da chi ogni anno ci chiede di essere protagonisti. Ogni volta, si litiga con i propri familiari e con le persone con cui viviamo tutti i giorni perché facciamo sacrifici enormi e a volte non c’è una giusta riconoscenza, non in denaro ma in affetto. Quello che vorrei è la pratica di questo sport nel modo migliore possibile, attraverso degli orari di lavoro sufficienti per il settore giovanile, soprattutto, per i bambini che dopo un’ora devono andare via. Desidererei questo per il Molfetta noi ormai potremmo giocare qualche altro anno ancora, sinceramente, vedo con difficoltà un cambio generazionale.”

Spesso ci siamo chiesti, un giocatore di hockey, in quei 50 minuti “d’inferno” quali sensazioni prova?

“Il mister dice di aver paura solamente di noi stessi. Quello che provo è rispetto per l’avversario, una certa paura, ma non interpretata negativamente, è una paura che mi porta a ponderare bene il valore dell’avversario e fa in modo che sia umile nell’affrontarlo.

50 minuti d’inferno dove può bastare un passaggio buono, un gol, un incitamento del mister, affinché una partita che, magari, sta andando storta, cambia completamente e diventa un’altra partita. Sei soggetto a tutto quello che succede nell’azione fino a che non ti impegni a fare in modo che la ruota giri verso di te e se ci riesci, diventi inerme al dolore e hai una sensazione di invincibilità.”

Ogni stagione sei pronto a rimetterti in gioco con l’entusiasmo di un ragazzino e se un “domani” il tempo ti bussasse sulle spalle e ti dirà “domani sarai grande”, levati i pattini perché da oggi sei un uomo e non potrai sentire il profumo della pista così da vicino, l’adrenalina che ti consuma e la soddisfazione di esultare, frasi di un grande sportivo, come la vivrebbe il Maurizio giocatore?

“Io ho scelto di fare un’università che mi vedeva anche e soprattutto dall’altro lato non come giocatore ma come allenatore. Non ti nascondo che non mi piace l’idea che ci siano pochi orari, non mi piace l’idea che si contano i minuti perché dopo c’è un’altra società che deve occupare la pista, non mi piace l’idea che abbiamo una pista scoperta, dove esistono progetti per sfruttarla al meglio, ma il comune non promuove tutto questo, non promuove l’attività sportiva. Ho tanta voglia di mettermi in gioco ma, probabilmente, questo sistema non mi appartiene quindi preferisco essere distante da questo modo di praticare lo sport. Quello che posso fare e cercare di essere in campo un esempio per i piccoli, per i genitori, anche per le persone adulte al fine di dare uno spettacolo positivo che possa essere in campo ma, soprattutto, nella vita. Insegnare il rispetto dell’avversario, il rispetto delle regole, soprattutto, anche la responsabilità e il controllo dell’emozioni perché a volte possono capitare partite, dove nel gestire tutto questo è molto complicato , purtroppo molti trovano esempio nel calcio, un esempio davvero sbagliato da seguire, io ammiro in questo contesto il rugby perché è uno sport nobile, anche lì si creano situazioni difficili da gestire dato l’alto tasso di contrasti fisici che possono portarti a perdere la testa ecco è proprio in quel momento lì, noi dobbiamo cercare di essere un buon esempio da seguire” .

Con molta probabilità questa sarà una delle ultime interviste che rilascia, questo giocatore sincero. Un guerriero, corretto, riflessivo e saggio, che per il giusto è sempre pronto a battersi.

mercoledì 24 Aprile 2019

(modifica il 29 Luglio 2022, 3:52)

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